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Open source: l’Europa ora vuole guadagnarci e guadagnare autonomia

Da fenomeno culturale di nicchia negli anni ’90 a driver per il business del new normal. L’open source ha fatto successo, per ora soprattutto oltreoceano. In Europa se ne riconosce il valore, ma poco se ne ricava concretamente. Mancano policy interne, formazione e incentivi, servono leader e programmi che facciamo scalare questo paradigma. È fondamentale quindi riposizionarlo all’interno dell’ecosistema UE per far sì che emerga la sua importanza in termini di autonomia digitale, competitività internazionale e protezione dei dati, dei diritti e degli interessi europei. 

Pubblicato il 24 Ott 2022

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Potrebbe rappresentare una potente leva apolitica per promuovere la sovranità digitale, ma in Europa si ha ancora una visione “romantica” dell’open source. Soprattutto se ci si paragona con il Nord America, che ne fa un business da anni, anche grazie alle aziende europee. Quelle che si avvicinano a questo approccio, infatti, devono quasi sempre attingere a servizi e infrastrutture statunitensi, oltre che alle competenze e all’esperienze che da questa parte dell’oceano sono ancora acerbe. La voglia di autonomia e la spinta alla commercializzazione stanno però acuendo il bisogno di nuovi meccanismi che permettano all’Europa di tracciare la propria rotta open source creando un gioco a somma positiva per tutti.

Il recente studio condotto da Scott Logic e Linux Foundation Research mostra un’importante evoluzione in atto, a partire dal mindset. Il valore percepito dell’open source è in media aumentato negli ultimi 12 mesi e il 91% degli intervistati lo ritiene prezioso per il proprio futuro. Questa percentuale media, però, abbraccia tutti i Paesi e i settori, nascondendo importanti disomogeneità e contraddizioni da affrontare rimboccandosi le maniche.

Rischio vendor lock-in vero driver per un’UE più aperta all’open source

Il primo passo verso un uso efficace e pragmatico dell’open source è l’adozione di una policy aziendale che lo regoli. Quasi l’80% lo ha già compiuto, evitando quella stagnazione e quella incertezza lamentata da chi è rimasto indietro e meno può percepire e beneficiare del valore di questo paradigma.

Nel settore pubblico si incontrano sempre più spesso vere e proprie prescrizioni formali diffuse dai diversi enti governativi a partire dalla Commissione europea – con la sua “Strategia per il software open source 2020-2023” – e compresa la stessa Italia con le indicazioni dell’AgID.

Il driver di adozione più potente è la paura del vendor lock-in (78%): puntando sull’open source si possono infatti creare percorsi di fornitura alternativi, facilitare la migrazione e così eliminare eventuali costi di uscita diretti o indiretti. Questa crescente spinta si scontra però con alcuni oggettivi ostacoli, a partire da quelli legati alla mancanza di sicurezza (63%) avvertiti da tutti in modo omogeneo.

Per le organizzazioni non munite di una policy sull’utilizzo dell’open source risulta limitante anche la carenza di formazione e orientamento (74%) e la scarsa comprensione dei benefici apportati (65%). Per quelle invece che la hanno ma molto restrittiva, i problemi riguardano licenze e proprietà intellettuale (67%) e regolamenti esterni (43%). Nonostante ciascuno debba “lottare” coi propri limiti, tutti condividono la necessità di maggiori investimenti per migliorare la formalità della struttura e del supporto intorno all’open source.

Mancano policy e leadership: l’open source europeo è a senso unico

Il paradigma dell’open source è un meccanismo “a perdere” in Europa: tanti lo fruttano ma pochi vi contribuiscono. Eppure, per farlo basterebbe fornire risorse di progettazione, rispondere ad alcune domande oppure scrivere il vero e proprio codice. Più che di egoismo, si tratta di carenza di regole, oltre che di incentivi e di cultura aziendale. C’è infatti un forte squilibrio tra la percentuale di aziende priva di policy di contribuzione (35%) e priva di policy per l’utilizzo (17%). Le più virtuose sono le micro aziende – startup in primis – e i giganti dei vari mercati. Le prime sono dinamiche e hanno governance più agili, i secondi risultano più organizzati e strutturati. A latitare sono le aziende di medie dimensioni che, se danno a propri dipendenti indicazioni su come e se contribuire all’open source, lo fanno in modo confuso e poco incoraggiante.

Ampie differenze emergono non solo in base alle dimensioni ma anche ai settori: in quello finanziario-assicurativo e quello dell’istruzione, i contribuiti da parte della forza lavoro sono graditi e incoraggiati solo nel 25% e nel 28% dei casi, rispetto a una media del 46%. Non spicca nemmeno la PA (29%), dove la mancanza di incentivi e di cultura open source portano molti a vederlo come un meccanismo di trasparenza e non di collaboration e di creazione di valore collettivo.

Per rafforzare l’idea che sia vitale per il successo a lungo termine dell’ecosistema economico e per la sovranità digitale dell’UE, secondo molti (85%) andrebbe migliorata la qualità complessiva del software a supporto. Un ragionamento che si mangia la coda: fortunatamente esistono altre azioni per favorire un aumento dei contributi all’open source. “Banalmente” si può iniziare con l’assegnare tempo ai dipendenti per lavorarci, soprattutto sapendo che in media il 65% è già attivo in tal senso appena esce dall’ufficio, attratto dal clima della community e dalle opportunità di crescita personale.

Passo più complesso, ma necessario, è la definizione di una leadership chiara e forte, che sia un OSPO (Open Source Program Office) formale o una singola figura interna. È un driver basilare, perché permette una maggiore chiarezza sulle policy, potenzia la percezione dei benefici derivanti dall’open source e riduce l’impatto degli ostacoli interni. Anche in questo caso le più virtuose sono le aziende micro (38%) e quelle grandi (47%), mentre le altre ancora tentennano (24%) restando spesso fruitrici dell’open source senza mai contribuirvi.

Scenario europeo

Luci e ombre compongono uno scenario europeo open source non privo di differenze interne di approccio e di “entusiasmo”. Nell’attuale contesto, però, acquisiscono una straordinaria potenza i punti in comune tra le organizzazioni, unite dal desiderio urgente di una sovranità digitale europea.

C’è grande convergenza, per esempio, sulle priorità su cui investire: favorire l’uso dell’open source da parte del pubblico e creare alternative ai monopoli tecnologici. Condiviso è anche l’obiettivo di riposizionare l’open source in tempi stretti e riequilbrarne utilizzo e contributi per sbloccare il suo valore commerciale.

La vera sfida è quella di scrivere un nuovo modello che sia profittevole come quello USA, ma nel rispetto dei “valori romantici” dell’UE. La strada suggerita è quella di diffondere l’open source come meccanismo di collaborazione apolitica e di creazione di valore condiviso. Anche in questo caso non si tratta di “romanticismo europeo”: a tutti gli effetti la natura della tecnologia e dei metodi di lavoro che caratterizzano questo approccio creano uno spazio di collaborazione intrinsecamente neutrale e sicuro e promuovono relazioni anche non commerciale, tra esperti, “anywhere and anytime”.

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